Domenico Aprile - Peer learning, videogame e risorse educative aperte: i progetti della DaD

Peer learning, videogame e risorse educative aperte: i progetti della DaD

La didattica a distanza come opportunità di socialità ed inclusione. Domenico Aprile, insegnante di informatica, ha usato il peer learning per coinvolgere gli studenti.

Tra le materie che più si prestano, almeno su carta, all’insegnamento tramite gli strumenti del digitale, c’è sicuramente l’informatica. Per questo abbiamo intervistato Domenico Aprile, professore di informatica all’European High School, nel Liceo Scientifico “Fermi-Monticelli” di Brindisi.
Cosa ha fatto in particolare? Ha sfruttato la didattica a distanza come opportunità per far sperimentare alle sue classi le metodologie della cooperazione interattiva trasversale su vari progetti. 
Incuriositi dalla sua creatività e competenza, gli abbiamo fatto qualche domanda per approfondire.

Domenico, ci racconti come si insegna l’informatica nel 2020, a prescindere dalla didattica a distanza?

“Insegnare l’html 5, il linguaggio di markup per la realizzazione di siti web, potrebbe non servire a nulla perché domani, dopo domani, potrebbe venire fuori qualcosa d’altro di nuovo e diverso. È utile, invece, insegnare i fondamentali, quindi la logica della programmazione, perché sono meccanismi, tecniche e processi che restano. Oggi chi sviluppa app per smartphone non lo ha studiato, ma ha studiato i fondamentali dell’informatica. Solo in un secondo momento li ha curvati su quelle che erano le necessità.

Non posso pensare di insegnare agli studenti, nati ormai tutti dopo il 2000, allo stesso modo in cui insegnavo nei miei primi anni da docente. Le generazioni cambiano con una velocità impressionante: i ragazzi che avevo nel primo anno di superiori cinque anni fa, sono completamente diversi da quelli che sono al primo anno in questo momento”.

Cambiano le modalità di insegnamento, cambiano le generazioni velocemente e cambiano anche le velocità di apprendimento?

“L’apprendimento è un fatto personale. Bisognerebbe scindere il momento dell’insegnamento dal momento dell’apprendimento. Per non parlare poi della valutazione. Il docente insegna, ma non può nulla sul piano della capacità dell’apprendimento dello studente. Può solo stimolare l’interesse e la curiosità verso una disciplina, verso l’oggetto di studio. Ciascuno di noi apprende nel momento in cui ha l’interesse verso l’oggetto dell’apprendimento. E quindi nessuno apprende qualcosa veramente nell’istante in cui lo ascolta. Ha bisogno di un momento per fare sua quella nozione, quale che sia il metodo, che sia leggendo e ripetendo o applicandolo nella pratica”.

È qualcosa che va oltre la lezione...

“Esatto. Lavoro seguendo il costruttivismo di Seymour Papert e il metodo Montessori, che vanno oltre la lezione frontale e si focalizzano su metodologie completamente diverse legate alle attività esperienziali.
La possibilità di costruire qualcosa comporta la necessità di conoscere la materia e il concetto davvero bene, fino in fondo. In caso contrario, si rischia di avere una semplice ripetizione mnemonica, esercitando la memoria a breve termine che poi viene cancellata, svanisce”.

“La scuola in cui torneremo dopo la didattica digitale integrata dovrà necessariamente essere ripensata nel suo agire relazionale, nella sua socialità.”

Proprio nell’ottica dell’imparare facendo, quali sono i progetti che avete portato avanti da marzo in poi tramite la didattica a distanza?

“Più che didattica a distanza o di didattica integrata dal digitale, per quanto riguarda la nostra scuola, parlerei di didattica aumentata. Come ho scritto nel mio breve contributo sulla guida della didattica integrata del Sole24Ore, è un percorso che parte da lontano. Il mezzo cambia completamente il metodo della didattica, perché cambia lo spazio, cambia il tempo, cambiano tutti gli strumenti.
Noi abbiamo lavorato su due progetti in particolare:

  • lo sviluppo di un videogame didattico. Siamo partiti dagli interessi dei ragazzi, ovvero i videogame, e abbiamo lavorato tramite il peer learning (modalità di apprendimento tra pari, ossia gli studenti, ndr). Il risultato è stato un videogame educativo creato sulla base di tutorial di game maker;
  • la realizzazione di una OER (Open Educational Resorce), una risorsa educativa aperta, ossia una dispensa informativa. Per la promozione di questa abbiamo fatto lavorare i ragazzi alla costruzione del sito web, grazie all’utilizzo di dispense testuali tramite Google Docs. Hanno poi lavorato anche alla parte di presentazione realizzando la locandina e il logo del progetto.”

Il risultato poi sono sempre degli strumenti utili all’apprendimento in sé.

“Si, soprattutto perché non si parte dal concetto ma dal problema. È la metodologia propria del problem based learning: cercare di partire da un problema reale e svilupparci sopra un progetto che necessiti di competenze e abilità, che si apprendono con la realizzazione del progetto stesso.”

domenico aprile_1

Come hanno accolto le tue classi la trasposizione della scuola nel virtuale, nella distanza?

“Abbastanza bene, probabilmente perché in molti casi erano già abituati a lavorare in modalità differenti secondo le linee guida dell’European High School. Però, c’è da sottolineare una cosa abbastanza ovvia: sono nel pieno della loro adolescenza, nel pieno dello sviluppo della socialità. Pensare che non abbiano risentito in alcun modo della necessità di dover restare chiusi in casa e frequentare delle videolezioni sarebbe assurdo. Ma, se devo essere del tutto sincero, in realtà, per la mia esperienza e per le mie classi, stanno affrontando la situazione con enorme maturità.”

C’è qualcosa che hanno detto di significativo al riguardo?

“Qualche ragazzo diversamente abile ha rifiutato l’opportunità di seguire le lezioni in classe preferendo la DaD. Lo ha fatto asserendo: ‘Io finalmente così riesco a vedere i miei compagni e mi sento alla pari, mentre in classe in qualche modo, dovendo stare al primo banco per ragioni di necessità e opportunità, dovendo entrare o uscire 10 minuti prima o dopo, percepivo la situazione di diversità. Invece ora no’.

Questo avvalora quello che è il web nelle intenzioni del suo fondatore, Tim Berners-Lee: “Il web è progettato per essere universale, per includere tutti e tutto” (dal discorso The Mobile Web, 3GSM World Congress, Barcellona, 2007)”

Internet come luogo per la condivisione, l’inclusione e l’abbattimento delle differenze, giusto?

“Si, indubbiamente. Ma, poi, qualche studente ha comunque chiesto: ‘Una volta tornati in presenza, questi strumenti che stiamo utilizzando, continueremo a usarli?’. Io, ovviamente, ho risposto che da parte mia è un sì. Ma dopo uno mi ha detto: ‘Lo stavamo chiedendo a lei, ma non lo stavamo chiedendo a lei…’ A buon intenditor poche parole.

“Il digitale, se utilizzato in maniera corretta, diventa un abilitatore di cittadinanza”.

Invece, da parte dei genitori quali riscontri avete avuto?

“Una madre ci ha tenuto a fare i complimenti all’intero consiglio perché siamo riusciti in qualche modo a mantenere la relazione educativa con i ragazzi. Certo, è chiaro che questa situazione non è normale e che nessuno poteva prevederla. E bisogna dirlo con grande chiarezza: non può perdurare in eterno. Non si può pensare di prendere la scuola e trasformarla in un grande canale Youtube, su cui vengono fatte alcune attività obbligatore. La didattica a distanza prima o poi finirà. Ma mi auguro che non finisca tutto quello che il doversi mettere forzatamente in gioco ha portato. Credo che non finirà perché siamo cambiati noi, sono cambiati gli studenti, sono cambiate le famiglie”.

Ci sono dei dubbi al riguardo?

“Io mi metto nei panni dei genitori. Nel momento in cui si ha un figlio adolescente quando lo si manda a scuola ci si augura che partecipi alle attività all’interno di un luogo protetto, sicuro e tranquillo. Quando li si lascia davanti a uno schermo, mi rendo conto che le problematiche sono tante e sono varie e purtroppo molte anche giustificate dalla situazione. Senza contare le difficoltà tecniche”.

Per esempio quali?

“L’enorme problema del digital divide, che abbiamo fatto finta non esistesse sino a febbraio 2020.
È il problema della copertura a banda larga di tutti gli istituti ma soprattutto di tutto il territorio nazionale. Comprese le aree a cosiddetto ‘fallimento di mercato’, ovvero le zone dove le aziende non investono, perché non è remunerativo. Lì, a mio parere, bisognerebbe fare un intervento di Stato.

Contemporaneamente, c’è un enorme e grande problema di formazione, non soltanto dei docenti, intendiamoci, ma proprio a livello di famiglie e di studenti. C’è un grosso gap di competenze digitali, alle volte proprio di base. Perché purtroppo per tanto tempo abbiamo considerato il digitale come il luogo ameno su cui fare studi critici, senza capire che il digitale è uno strumento potentissimo.

Il digitale se utilizzato in maniera corretta, diventa un abilitatore di cittadinanza; se utilizzato in maniera sbagliata diventa uno strumento che dà voce agli imbecilli, come diceva Umberto Eco”.

“Le scuole non hanno mai realmente chiuso perché i docenti non hanno mai smesso di insegnare e gli studenti non hanno mai smesso di apprendere".

I tuoi colleghi come hanno reagito alla necessità di trasferirsi online?

“La situazione di necessità, come in tutte le cose umane, costringe a porsi degli interrogativi e ad adottare soluzioni e strategie differenti. Quindi, se vogliamo proprio trovare qualcosa di positivo all’interno di questo disastro chiamato Covid, è il fatto che tutti gli insegnanti, nessuno escluso, hanno sperimentato qualcosa. Magari anche sbagliando o adottando strumenti non sempre adeguati e non sempre conformi, ma ci hanno provato e ci stanno tuttora provando ingegnandosi in tutti i modi.

Quindi questa polemica delle scuole chiuse non ha ragion d’essere, perché le scuole non hanno mai realmente chiuso, le scuole non sono chiuse. Non hanno chiuso sia perché i docenti non hanno mai smesso di insegnare, sia perché gli studenti non hanno mai smesso di apprendere. Al netto, ovviamente, dei casi limite che ci sono ed è inutile negarlo, ma c’erano anche in presenza”.

Cosa senti di aver imparato da questa esperienza e da tutta la situazione correlata?

“Ho imparato che abbiamo dei ragazzi meravigliosi sui quali dovremmo investire molto, molto di più. Il che significa investire nell’aspetto relazionale della scuola. Abbiamo delle bellissime intelligenze capaci di fare delle riflessioni spiazzanti anche su argomenti che non ti aspetteresti. Per questo credo che la scuola in cui torneremo dopo la didattica digitale integrata dovrà necessariamente essere ripensata nel suo agire relazionale, nella sua socialità”.

In particolare in che modo?

“Meno verifiche, meno tempo “perso” a sviluppare contenuti, molta più socialità vera e relazione, molto più ambiente d’apprendimento. Molto meno caserma, molto più hub, luogo aperto al mondo esterno. Molto più assemblea, molto meno rito sacro. Insomma, meno scuola gentiliana, che andava benissimo per il cittadino del secolo scorso, più nuova agorà delle conoscenze e delle competenze. Più spazio ai ragazzi”.

Più spazio ai ragazzi, quindi...

“Questa società si deve dimenticare che una volta tornati a scuola, in classe si possa ritornare al tempo contingentato, alla scuola delle categorie aristoteliche: tempo, azione, luogo. Ci vuole qualcosa di diverso. Le nuove tecnologie ne danno davvero la possibilità, anche solo l’opportunità di sfruttare l’asincrono, che significa dare ai ragazzi un tempo molto più adeguato e personalizzato per l’apprendimento.
Magari teniamo le scuole aperte oltre l’orario didattico, ma facciamo in modo che siano loro i veri protagonisti. Passato il Covid, non chiudiamoli dietro quei banchiSono teste pensanti e ne stiamo avendo la riprova.”

Autrice: Marcella Peverini