Italiano per stranieri: la DaD incontra in Cile passione e creatività

Se la DaD ha rappresentato un ostacolo per gli alunni italiani, cosa può aver rappresentato per dei piccoli alunni stranieri che, nel mare della lingua italiana, stavano solo muovendo i primi passi?

Federico, una laurea in lettere e filosofia, in Italia ha svolto molti progetti di ricerca nell’ambito della didattica. Questo fino a che non ha una grande opportunità: trasmettere in Cile la profonda passione per la lingua italiana a coloro che l’Italia non hanno ancora avuto l’opportunità di vederla e noi di Idee per la scuola abbiamo deciso di raccontare la sua storia.

Vuoi parlarci della scuola in cui insegni?

“La mia scuola si trova nella città di La Serena, dove nel 1952 si stabilì un gruppo di famiglie provenienti dalla provincia di Trento. La scuola copre l’intero ciclo scolastico: parte dalla scuola dell’infanzia fino all’ultimo anno delle superiori. Gli alunni dedicano 4 ore a settimana allo studio della lingua italiana, per raggiungere un livello intermedio di conoscenza della nostra lingua.
La scuola conta all’incirca 700 alunni e 50 insegnanti”.

A quale materia dedichi il tuo insegnamento?

“Io insegno produzione orale e scritta della lingua italiana: è una materia diversa dalla pura grammatica, per la quale ci sono degli insegnanti specifici. Mi permette di sperimentare, dando sfogo alla mia creatività”.

Raccontaci: qual è stata la tua esperienza con l’arrivo della pandemia?

“L’anno cileno è diverso da quello italiano: va da marzo a dicembre con una pausa di due settimane a luglio. Il Coronavirus è arrivato in Cile a febbraio 2020, la seconda settimana siamo andati in lockdown. Abbiamo avuto bisogno di due settimane per riorganizzare l’intera attività: l’unità tecnico-pedagogica ha riformulato la proposta scolastica a partire dall’orario. Per esempio, alla scuola materna le lezioni sono passate da 45 a 30 minuti. Inoltre sono state privilegiate le discipline principali: spagnolo, matematica, le varie scienze, italiano. Una volta a settimana sono stati organizzati anche degli incontri con degli psicologi, individuali oppure di classe, per dare sostegno e supporto a chi ne aveva bisogno”.

Ogni giorno impari ad imparare, dagli studenti e con loro. La scuola non la facciamo noi a loro, la facciamo entrambi: loro a noi e noi a loro. Ce ne andiamo sempre stracarichi di compiti a casa.

Hai dovuto modificare qualcosa nell’approccio alla tua materia?

“Naturalmente mi sono dovuto adattare alle nuove circostanze, a seconda dell’età dei bambini. Nella scuola dell’infanzia ho completamente messo da parte i libri privilegiando un approccio più ‘fisico’ e ludico. Ho mantenuto il programma, gli argomenti e i contenuti ma ho cambiato le attività. Ho eliminato l’idea di aula abbandonando le sedie e le posture fisiche: chiedevo ai bambini di sedere su divani o cuscini piuttosto che a una scrivania!”

E cosa succedeva durante la lezione?

“Ogni lezione durava 30 minuti e coinvolgevo sempre il papà, la mamma o i nonni: ne avevo bisogno per ricostruire la relazione con il bambino. Ho innanzitutto ricreato una routine attraverso degli espedienti, ad esempio una canzone di ‘buon giorno’ e una di ‘arrivederci’. Cercavo di dare dei compiti reali senza mediare attraverso realtà virtuali. Per insegnare i nomi delle parti del corpo, coinvolgevo fisicamente i bambini e invitavo anche i familiari a partecipare! Utilizzando questo metodo, gli oggetti nella casa diventano oggetti da riscoprire”.

Qual è stata la tua esperienza con bambini di altre età?

“Forse un po’ più complicata perché, oltre che della mia materia, mi sono dovuto occupare della grammatica: se con i bambini dell’infanzia ero riuscito a fare a meno dei libri, in questo caso non ho potuto. Ho puntato sempre su attività concrete e articolate per favorire il coinvolgimento: ho adottato una lavagna condivisibile e utilizzato programmi che permettessero agli alunni di modificare le pagine scannerizzate in tempo reale. Anche in questo caso è stata fondamentale la partecipazione delle famiglie: hanno avuto l’opportunità di capire davvero come noi insegnanti lavoriamo. Per loro è stato importante e ci ha aiutati a costituire una vera e propria rete!”.

Com’è andata invece con i ragazzi più grandi delle medie?

“La situazione era notevolmente più complessa. In questo caso non è più obbligatorio l’accompagnamento del genitore e questo ci ha posto di fronte ad alcune criticità: è accaduto anche che alcuni alunni spegnessero le telecamere. Considerate che molti ragazzi rimanevano tutto il giorno soli in casa perché i genitori andavano al lavoro”.

Come siete riusciti a superare queste difficoltà?

“Abbiamo deciso di concentrarci sulla sfera emotiva, più che su quella puramente didattica: Il programma è stato ridotto all’osso, le attività sono diventate dei progetti. Abbiamo diviso l’anno in 3 trimestri e deciso di valutare i ragazzi solo a fine anno. L’idea è stata quella di lavorare molto con la realtà virtuale e, per l’appunto, su progetti e attività di natura pratica, dimostravo che quello di cui parlavamo era sempre attuale!”.

Cosa hai imparato dai mesi in DaD?

“Quando metti in pratica la teoria devi fare i conti con la realtà: ho dovuto imparare a lavorare sui processi, utilizzando la lingua italiana per costruire e non solo per parlare. L’italiano, in definitiva, è diventata una lingua di crescita. La chiave vincente è stata sicuramente abbandonare quell’approccio formale che non faceva che aumentare la solitudine delle pareti di casa. Ho imparato, infine, a dare criteri chiari e responsabilità nella costruzione della prova, coinvolgendoli molto di più i ragazzi. Ho imparato a fidarmi di loro”.

Ho utilizzato la lingua italiana per costruire e non solo per parlare. L’italiano, in definitiva, è diventata una lingua di crescita.

Si può dire che la scuola non sarà più la stessa?

“La pandemia ha accelerato un processo che la scuola avrebbe dovuto comunque vivere: riformulazione non tanto dei contenuti quando delle strategie e degli approcci. È fondamentale privilegiare abilità e contenuti allo stesso modo: i bambini non possono solo imparare a memoria le tabelline ma anche capire perché sommare! I ragazzi non si sono limitati a studiare le opere d’arte: attraverso alcuni programmi sono entrati nei musei e dato alla teoria un’applicazione pratica”.

Di Marta Massimi